lop1912 on 3 Jan 2001 12:35:05 -0000


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Dalla psicoanalisi alla schizopolitica

La psicoanalisi sembra attraversare una crisi profonda. Sul numero di 
Newsweek uscito per il capodanno 2000, si trovava una lista delle cose 
destinate a scomparire nel nuovo secolo. La prima sarebbe la psicoanalisi, 
mentre sopravviverebbe, secondo il settimanale, lo psychic, l’esoterismo 
magico reso popolare da eserciti di ciarlatani. Per gran parte del 
ventesimo secolo la psicoanalisi ha esercitato un predominio intellettuale 
e terapeutico come forma di interpretazione e di cura della nevrosi. Negli 
ultimi decenni si è assistito a un fiorire di psicoterapie di tipo 
relazionale, come quelle che si ispirano al pensiero di Gregory Bateson, di 
psicoterapie corporee come la bioenergetica, e infine abbiamo visto il 
ritorno della terapia organicista raffinata e potenziata dalla 
psicofarmacologia, mentre all’orizzonte si delinea la possibilità di un 
ingresso determinante della genetica in campo psicoterapeutico.

La crisi della psicoanalisi non corrisponde affatto a un ridimensionamento 
quantitativo della psicopatia, della nevrosi o della sofferenza mentale. 
Tutt’al contrario. Per quanto non si possano prendere sul serio le 
statistiche e le ipotesi quantitative quando si tratta del benessere 
psichico della gente, è esperienza largamente diffusa che il disagio 
mentale, e la sofferenza psichica penetrino nelle pieghe della vita 
metropolitana in modo sempre più diffuso o almeno sempre più evidente. 
Fenomeni come la depressione e il panico sembrano avere raggiunto le 
dimensioni di una epidemia nel mondo occidentale. Secondo alcuni 
osservatori la crisi della psicoanalisi si può collegare con un certo tipo 
di consumismo frettoloso. La domanda di cura è sempre più assimilabile a 
una richiesta di rapida consulenza, e sempre meno il consumatore spirituale 
ha voglia di affrontare i tempi lunghissimi della cura psicoanalitica. 
Meglio il prozac che l'anamnesi, nell'epoca del fast food e 
dell'accelerazione di produttività.

Ma tutto questo non basta. Forse bisogna riconoscere che la psicoanalisi è 
legata a una condizione elitaria, per i suoi alti costi, per i suoi tempi 
lunghi, ma anche e soprattutto perché richiede una disponibilità 
intellettuale sempre più rara, oggi che il tempo mentale è divenuto la 
fonte principale del valore economico. Per i membri della classe virtuale, 
che producono valore investendo il loro lavoro cognitivo, la sofferenza 
mentale è una sorta di malattia professionale che va curata con gli 
psicofarmaci, strumenti di rapido intervento per restituire alla mente la 
sua produttività. Per la popolazione residuale esclusa dal circuito 
virtuale, poi la psicopatia diviene la nuova condizione di normalità: una 
normalità aggressiva, di cui l’integralismo, il nazionalismo, il 
conformismo sono manifestazioni comuni.

Forse la crisi della psicoanalisi deriva proprio dalla normalizzazione 
della psicopatia, dal fatto che questa diviene condizione comune. Come è 
possibile mantenere un ambito specifico di analisi e di terapia quando i 
processi della politica, della produzione, della comunicazione sembrano 
coincidere con una progressiva patologizzazione dell’esistenza sociale? 
Naturalmente mi rendo ben conto di quanto pericolosa sia questa posizione. 
In questa maniera c’è il rischio di appiattire le storie individuali, 
riducendole a manifestazioni di una patologia sociale generalizzata, e in 
secondo luogo c’è il rischio di perdere di vista la specificità 
dell’analisi sociale, stemperandola definitivamente in un quadro di tipo 
psicopatologico. Infine, e più radicalmente, occorre chiedersi con che 
diritto possiamo giudicare come psicopatica la forma di vita che va emergendo?
Qui sta forse un problema che dobbiamo porci ogniqualvolta esercitiamo il 
giudizio, sul piano politico, sul piano psicoanalitico, o anche sul piano 
estetico. Che diritto abbiamo di considerare barbarie ciò che semplicemente 
sfugge al nostro criterio di giudizio? Non si tratta forse di un limite 
intrinseco al carattere umanistico del pensiero critico? Non si tratta 
forse di un limite del quale non possiamo certamente liberarci, ma che 
dovremmo ammettere, riconoscendo semplicemente la nostra incapacità di 
comprendere ciò che ha ormai travalicato i limiti della cultura umanistica?

Quando inorridiamo di fronte alle distese di villette con nanetti che 
fioriscono ad esempio lungo la costa siciliana, che diritto abbiamo di 
pretendere che il nostro gusto sia obbiettivamente superiore al gusto del 
novanta per cento dei siciliani che amano costruire villette messicane con 
nanetti brianzoli tra la valle dei templi e il mare Jonio? Non vi è forse 
una contraddizione insanabile tra estetica e democrazia? E non è forse 
evidente che la democrazia è destinata a vincere, fottendosene dell'etica e 
dell’estetica umanistica, romantica, e istituendo una nuova estetica, fatta 
di villette texane, nanetti brianzoli e cancellate in finto marmo?

Nel comportamento della maggioranza dell’umanità contemporanea non dobbiamo 
vedere un effetto di superficie come erano le ideologie politiche o i 
movimenti di opinione.  Dobbiamo vedere il segno di una mutazione 
irreversibile che investe lo psichismo sociale e le forme stesse della 
cognizione. Dobbiamo vedere l’effetto di automatismi psichici, linguistici, 
cognitivi che in nessun modo possono essere contrastati o corretti 
dall’azione politica, o dall’edificazione civica, o dai buoni sentimenti 
umanitari o umanistici. La mutazione dell’umano rende semplicemente 
obsoleto l’universalismo umanistico.

I conflitti interetnici generati dallo spostamento di masse di popolazione, 
le crisi politiche che ne conseguono, l’emergere di forme di aggressività 
razziale, religiosa, nazionale sembrano oggi ripercorrere il tracciato 
degli eventi che nella prima parte del ventesimo secolo portarono 
all’emergere del totalitarismo nazista, allo sterminio di interi popoli, 
alla guerra. Ma quello che sta accadendo oggi ha un’estensione molto 
maggiore di quel che accadde negli anni Venti e Trenta, perché il fenomeno 
coinvolge la maggioranza della popolazione terrestre. E a differenza di 
allora non si tratta di un fenomeno provocato dalla volontà politica di 
gruppi fanatici. Il fanatismo è divenuto automatismo psichico per la grande 
maggioranza. La psicopatia è divenuta senso comune.

Ecco allora che la crisi della psicoanalisi va intesa come un passaggio 
decisivo. Per andare oltre questo passaggio io vedo la necessità di 
ripensare la psicoanalisi come schizoanalisi, cioè analisi che assume il 
punto di vista singolare e proliferante degli innumerevoli agenti di 
linguaggio. In un certo senso la cura della sofferenza mentale e 
l’interpretazione della psico-semiosi divengono la forma nuova della 
politica, la politica finalmente adeguata all’universo produttivo 
post-industriale, nel quale la mente è direttamente messa al lavoro, e 
quindi sottoposta a regimi e a ritmi patogeni. Dalla crisi della 
psicoanalisi emerge allora la schizopolitca, una politica intesa come 
terapia del funzionamento collettivo del linguaggio e come irradiazione di 
flussi terapeutici nel circuito della comunicazione sociale.

In epoca moderna la politica fu governo della volontà razionale 
sull'insieme dei fenomeni immaginari, proiettivi, comunicativi. La 
razionalità, -cioè la capacità di scegliere tra alternative decidibili 
secondo un criterio universale- guidava la volontà, -cioè la capacità di 
perseguire un disegno e di imporlo al corso degli eventi mentali, 
comunicativi e materiali. Nulla di tutto questo esiste più. I segni che 
costituiscono il mondo condiviso dell'Infosfera sono troppo numerosi e 
troppo veloci, per poter essere analizzati e compresi criticamente, e di 
conseguenza non esistono più le condizioni per una decisione razionale sul 
loro assetto complessivo, e ancor meno esistono le condizioni per un 
orientamento volontario del corso degli eventi del mondo.

Il corso degli eventi del mondo si presenta allora come un caos psicopatico 
nel quale    la mente individuale e anche quella collettiva perdono ogni 
capacità di guidare il proprio destino e il destino della collettività. La 
sofferenza psichica deriva dal sentimento di una inadeguatezza stridente 
tra la pretesa di una finalizzazione volontaria e razionale dell'agire e la 
realtà di un agire random, inconseguente, la realtà di un immaginario privo 
di ordine, privo di gerarchia. Sono le eredità del razionalismo moderno che 
producono il sentimento di inadeguatezza della mente collettiva.

La schizoanalisi suggerisce un altro modo di rapportarsi alla politica. Non 
esiste più alcuna possibilità di selezione razionale, né di finalizzazione 
volontaria. La schizoanalisi propone di abolire ogni riferimento normativo 
alla razionalità giudicante. La schizoanalisi istituisce il criterio di una 
singolarità del giudizio che è parallela alla singolarità dei flussi 
comunicativi e degli insiemi esistenziali. Non esiste più alcuna coerenza 
sociale, esistono processi di socializzazione singolare, e questi possono 
assumere il governo su se medesimi soltanto se siamo capaci di sciogliere 
definitivamente il riferimento normativo e organizzativo all'insieme 
sociale. Occorre dichiarare sciolta la società umana perché l'umanità non 
ha pià alcuna ragione di stare insieme.

Il venir meno di ogni universalità nel giudizio, nella politica, nella 
normatività non indica la crisi provvisoria di una razionalità a cui una 
nuova razionalità universale dovrebbe succedere (come pretende lo 
storicismo dialettico, e il pensiero politico progressista). Non esisterà 
mai più alcuna universalità umana. La schizoanalisi parte di qui.
Schizopolitica significa capacità di costituire socialità a aprtire dalla 
ricombinazione singolare di elementi immaginativi, mnestici, desideranti. 
Autocostituzione di singolarità postumane.




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