lop1912 on 3 Jan 2001 16:34:58 -0000 |
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<nettime> Schizopol |
Dalla psicoanalisi alla schizopolitica La psicoanalisi sembra attraversare una crisi profonda. Sul numero di Newsweek uscito per il capodanno 2000, si trovava una lista delle cose destinate a scomparire nel nuovo secolo. La prima sarebbe la psicoanalisi, mentre sopravviverebbe, secondo il settimanale, lo psychic, l'esoterismo magico reso popolare da eserciti di ciarlatani. Per gran parte del ventesimo secolo la psicoanalisi ha esercitato un predominio intellettuale e terapeutico come forma di interpretazione e di cura della nevrosi. Negli ultimi decenni si è assistito a un fiorire di psicoterapie di tipo relazionale, come quelle che si ispirano al pensiero di Gregory Bateson, di psicoterapie corporee come la bioenergetica, e infine abbiamo visto il ritorno della terapia organicista raffinata e potenziata dalla psicofarmacologia, mentre all'orizzonte si delinea la possibilità di un ingresso determinante della genetica in campo psicoterapeutico. La crisi della psicoanalisi non corrisponde affatto a un ridimensionamento quantitativo della psicopatia, della nevrosi o della sofferenza mentale. Tutt'al contrario. Per quanto non si possano prendere sul serio le statistiche e le ipotesi quantitative quando si tratta del benessere psichico della gente, è esperienza largamente diffusa che il disagio mentale, e la sofferenza psichica penetrino nelle pieghe della vita metropolitana in modo sempre più diffuso o almeno sempre più evidente. Fenomeni come la depressione e il panico sembrano avere raggiunto le dimensioni di una epidemia nel mondo occidentale. Secondo alcuni osservatori la crisi della psicoanalisi si può collegare con un certo tipo di consumismo frettoloso. La domanda di cura è sempre più assimilabile a una richiesta di rapida consulenza, e sempre meno il consumatore spirituale ha voglia di affrontare i tempi lunghissimi della cura psicoanalitica. Meglio il prozac che l'anamnesi, nell'epoca del fast food e dell'accelerazione di produttività. Ma tutto questo non basta. Forse bisogna riconoscere che la psicoanalisi è legata a una condizione elitaria, per i suoi alti costi, per i suoi tempi lunghi, ma anche e soprattutto perché richiede una disponibilità intellettuale sempre più rara, oggi che il tempo mentale è divenuto la fonte principale del valore economico. Per i membri della classe virtuale, che producono valore investendo il loro lavoro cognitivo, la sofferenza mentale è una sorta di malattia professionale che va curata con gli psicofarmaci, strumenti di rapido intervento per restituire alla mente la sua produttività. Per la popolazione residuale esclusa dal circuito virtuale, poi la psicopatia diviene la nuova condizione di normalità: una normalità aggressiva, di cui l'integralismo, il nazionalismo, il conformismo sono manifestazioni comuni. Forse la crisi della psicoanalisi deriva proprio dalla normalizzazione della psicopatia, dal fatto che questa diviene condizione comune. Come è possibile mantenere un ambito specifico di analisi e di terapia quando i processi della politica, della produzione, della comunicazione sembrano coincidere con una progressiva patologizzazione dell'esistenza sociale? Naturalmente mi rendo ben conto di quanto pericolosa sia questa posizione. In questa maniera c'è il rischio di appiattire le storie individuali, riducendole a manifestazioni di una patologia sociale generalizzata, e in secondo luogo c'è il rischio di perdere di vista la specificità dell'analisi sociale, stemperandola definitivamente in un quadro di tipo psicopatologico. Infine, e più radicalmente, occorre chiedersi con che diritto possiamo giudicare come psicopatica la forma di vita che va emergendo? Qui sta forse un problema che dobbiamo porci ogniqualvolta esercitiamo il giudizio, sul piano politico, sul piano psicoanalitico, o anche sul piano estetico. Che diritto abbiamo di considerare barbarie ciò che semplicemente sfugge al nostro criterio di giudizio? Non si tratta forse di un limite intrinseco al carattere umanistico del pensiero critico? Non si tratta forse di un limite del quale non possiamo certamente liberarci, ma che dovremmo ammettere, riconoscendo semplicemente la nostra incapacità di comprendere ciò che ha ormai travalicato i limiti della cultura umanistica? Quando inorridiamo di fronte alle distese di villette con nanetti che fioriscono ad esempio lungo la costa siciliana, che diritto abbiamo di pretendere che il nostro gusto sia obbiettivamente superiore al gusto del novanta per cento dei siciliani che amano costruire villette messicane con nanetti brianzoli tra la valle dei templi e il mare Jonio? Non vi è forse una contraddizione insanabile tra estetica e democrazia? E non è forse evidente che la democrazia è destinata a vincere, fottendosene dell'etica e dell'estetica umanistica, romantica, e istituendo una nuova estetica, fatta di villette texane, nanetti brianzoli e cancellate in finto marmo? Nel comportamento della maggioranza dell'umanità contemporanea non dobbiamo vedere un effetto di superficie come erano le ideologie politiche o i movimenti di opinione. Dobbiamo vedere il segno di una mutazione irreversibile che investe lo psichismo sociale e le forme stesse della cognizione. Dobbiamo vedere l'effetto di automatismi psichici, linguistici, cognitivi che in nessun modo possono essere contrastati o corretti dall'azione politica, o dall'edificazione civica, o dai buoni sentimenti umanitari o umanistici. La mutazione dell'umano rende semplicemente obsoleto l'universalismo umanistico. I conflitti interetnici generati dallo spostamento di masse di popolazione, le crisi politiche che ne conseguono, l'emergere di forme di aggressività razziale, religiosa, nazionale sembrano oggi ripercorrere il tracciato degli eventi che nella prima parte del ventesimo secolo portarono all'emergere del totalitarismo nazista, allo sterminio di interi popoli, alla guerra. Ma quello che sta accadendo oggi ha un'estensione molto maggiore di quel che accadde negli anni Venti e Trenta, perché il fenomeno coinvolge la maggioranza della popolazione terrestre. E a differenza di allora non si tratta di un fenomeno provocato dalla volontà politica di gruppi fanatici. Il fanatismo è divenuto automatismo psichico per la grande maggioranza. La psicopatia è divenuta senso comune. Ecco allora che la crisi della psicoanalisi va intesa come un passaggio decisivo. Per andare oltre questo passaggio io vedo la necessità di ripensare la psicoanalisi come schizoanalisi, cioè analisi che assume il punto di vista singolare e proliferante degli innumerevoli agenti di linguaggio. In un certo senso la cura della sofferenza mentale e l'interpretazione della psico-semiosi divengono la forma nuova della politica, la politica finalmente adeguata all'universo produttivo post-industriale, nel quale la mente è direttamente messa al lavoro, e quindi sottoposta a regimi e a ritmi patogeni. Dalla crisi della psicoanalisi emerge allora la schizopolitca, una politica intesa come terapia del funzionamento collettivo del linguaggio e come irradiazione di flussi terapeutici nel circuito della comunicazione sociale. In epoca moderna la politica fu governo della volontà razionale sull'insieme dei fenomeni immaginari, proiettivi, comunicativi. La razionalità, -cioè la capacità di scegliere tra alternative decidibili secondo un criterio universale- guidava la volontà, -cioè la capacità di perseguire un disegno e di imporlo al corso degli eventi mentali, comunicativi e materiali. Nulla di tutto questo esiste più. I segni che costituiscono il mondo condiviso dell'Infosfera sono troppo numerosi e troppo veloci, per poter essere analizzati e compresi criticamente, e di conseguenza non esistono più le condizioni per una decisione razionale sul loro assetto complessivo, e ancor meno esistono le condizioni per un orientamento volontario del corso degli eventi del mondo. Il corso degli eventi del mondo si presenta allora come un caos psicopatico nel quale la mente individuale e anche quella collettiva perdono ogni capacità di guidare il proprio destino e il destino della collettività. La sofferenza psichica deriva dal sentimento di una inadeguatezza stridente tra la pretesa di una finalizzazione volontaria e razionale dell'agire e la realtà di un agire random, inconseguente, la realtà di un immaginario privo di ordine, privo di gerarchia. Sono le eredità del razionalismo moderno che producono il sentimento di inadeguatezza della mente collettiva. La schizoanalisi suggerisce un altro modo di rapportarsi alla politica. Non esiste più alcuna possibilità di selezione razionale, né di finalizzazione volontaria. La schizoanalisi propone di abolire ogni riferimento normativo alla razionalità giudicante. La schizoanalisi istituisce il criterio di una singolarità del giudizio che è parallela alla singolarità dei flussi comunicativi e degli insiemi esistenziali. Non esiste più alcuna coerenza sociale, esistono processi di socializzazione singolare, e questi possono assumere il governo su se medesimi soltanto se siamo capaci di sciogliere definitivamente il riferimento normativo e organizzativo all'insieme sociale. Occorre dichiarare sciolta la società umana perché l'umanità non ha pià alcuna ragione di stare insieme. Il venir meno di ogni universalità nel giudizio, nella politica, nella normatività non indica la crisi provvisoria di una razionalità a cui una nuova razionalità universale dovrebbe succedere (come pretende lo storicismo dialettico, e il pensiero politico progressista). Non esisterà mai più alcuna universalità umana. La schizoanalisi parte di qui. Schizopolitica significa capacità di costituire socialità a aprtire dalla ricombinazione singolare di elementi immaginativi, mnestici, desideranti. 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